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Turetta condannato all'ergastolo: quando la giustizia non può permettersi indulgenza
La sentenza di ergastolo per Filippo Turetta nel caso dell’omicidio di Giulia Cecchettin riporta alla luce un dibattito fondamentale: la pena di morte non è la soluzione, ma la certezza della pena sì.
Non sta all’essere umano decidere la morte di un altro, neppure di chi ha commesso i crimini più atroci. Tuttavia, l’ergastolo deve essere garantito a chi è accertato colpevole di omicidio, senza eccezioni e senza attenuanti. La vita di una vittima non ha prezzo, e la giustizia deve essere inflessibile nel preservare questo principio.
La questione non dovrebbe mai essere ridotta a generi, origini o contesti: uccidere un essere umano è un crimine contro tutta l’umanità. Eppure, l’Italia ha visto casi in cui omicidi efferati si sono conclusi con condanne alleggerite, con il paradosso che il colpevole è tornato in libertà dopo alcuni anni. Non è solo un’ingiustizia per i familiari, è un rischio per l’intera società. La rabbia e la frustrazione di chi ha perso un caro non possono essere mitigate dal pensiero che il carnefice possa rifarsi una vita, mentre chi è morto non tornerà mai più.
È giusto, però, contemplare la possibilità del pentimento. Se un ergastolano dimostra un sincero rimorso, se lavora e contribuisce al mantenimento dell’istituto carcerario, si può considerare un'eventuale riduzione della pena. Ma la parola chiave è “dimostrare”. Non si tratta di semplice buona condotta, ma di un cambiamento profondo, evidente e costante. I detenuti che lavorano ricevono una retribuzione, anche se modesta, che viene utilizzata per sostenere le loro spese personali e, in alcuni casi, per risarcire le vittime. Questo sistema permette ai detenuti di contribuire al proprio mantenimento, anche se non si parla di “pagarsi il soggiorno”.
In Italia, il lavoro in carcere è una parte essenziale del percorso rieducativo. I detenuti possono svolgere diverse attività: manutenzione, cucina, lavanderia, artigianato. Ricevono un salario ridotto rispetto al mercato esterno, ma è comunque un riconoscimento del loro impegno. Parte del guadagno può essere utilizzato per risarcire le vittime o per sostenere le proprie famiglie. Tuttavia, solo una minoranza dei detenuti ha accesso a queste opportunità lavorative, un problema che andrebbe affrontato per migliorare l’efficacia del sistema.
L’assurdità più grande resta quella di vedere assassini liberi dopo soli 15 anni, come accaduto in passato. La legge deve essere chiara e inflessibile: chi uccide deve scontare l’ergastolo, salvo casi straordinari e comprovati di pentimento. Inoltre, in caso di nuove prove, il processo deve essere sempre riesaminato, per garantire la massima giustizia possibile.
Non si tratta di vendetta, ma di protezione. La società non può permettersi di perdere la fiducia nella giustizia. È fondamentale che il sistema funzioni, che chi ha sbagliato paghi e che la pena sia proporzionata al crimine. Giulia Cecchettin non tornerà, ma la sua memoria merita rispetto, e la giustizia deve onorare quel rispetto con sentenze certe e definitive. In "Lasciato Indietro", il mio racconto autobiografico, ho sottolineato con forza un concetto chiave: per essere davvero civile, una società deve investire prima di tutto in quattro pilastri fondamentali — educazione, salute, sicurezza e giustizia. Solo quando questi elementi sono saldi, tutto il resto può prosperare naturalmente.
Questa convinzione nasce dalla mia esperienza personale e professionale. Essendo parte del sistema di sicurezza e avendo vissuto accanto a figure essenziali come un informatore farmaco-scientifico, un'insegnante e, ora, un medico, ho toccato con mano quanto queste dimensioni siano fondamentali per garantire dignità e speranza.
#GiustiziaCerta #Ergastolo #MaiPiùVittime #Carcere #Pentimento #GiuliaCecchettin
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