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Guerra Israele Palestina: io c’ero, dalla Shoah a Gaza la fiamma che non si spegne

Dalla Nakba del 1948 al 7 ottobre 2023, la mia testimonianza personale tra missioni, sirene e memorie custodite

Oggi sento il bisogno di dirlo con chiarezza. Leggo, ascolto, osservo il dolore che ancora scorre in Medio Oriente, e non posso restare in silenzio. Ho visto la guerra con i miei occhi, l’ho respirata sulla pelle. E da militare so che ogni conflitto non nasce mai dal nulla: ha radici, responsabilità precise, scelte che hanno portato a sangue e distruzione.

Quella tra Israele e Palestina non è un fulmine a ciel sereno. È una miccia accesa quasi ottant’anni fa, e da allora brucia senza sosta. 


Le radici: 1945-1948. Tutto comincia con la fine della Seconda Guerra Mondiale. Sei milioni di ebrei sterminati nei campi di concentramento. I sopravvissuti cercano una patria sicura. La Palestina, sotto mandato britannico, diventa il punto di approdo. L’immigrazione cresce rapidamente: dal 6% della popolazione nel 1918 al 33% nel 1947.

Gli arabi palestinesi reagiscono. Già nel 1936-1939 avevano dato vita a una grande rivolta contro l’immigrazione ebraica e il controllo britannico. Già allora la terra diventava polvere da sparo.

Nel 1947 l’ONU approva la Risoluzione 181: la Palestina viene divisa in due stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme internazionale. Gli ebrei accettano, gli arabi rifiutano.

Il 14 maggio 1948 nasce Israele. Il giorno dopo Egitto, Siria, Giordania, Iraq e Libano attaccano. È la prima guerra arabo-israeliana. Israele resiste, conquista più territorio del previsto. 750.000 palestinesi fuggono o vengono espulsi. È la Nakba, la catastrofe che ancora pesa su generazioni intere.

Gli anni delle guerre: 1950-1973. Negli anni Cinquanta i profughi palestinesi, ammassati nei campi, tentano infiltrazioni armate. Israele risponde con rappresaglie durissime. Nel 1953, a Qibya, un’unità guidata da Ariel Sharon uccide oltre 60 civili.

Nel 1956 esplode la Crisi di Suez. Israele, insieme a Francia e Regno Unito, attacca l’Egitto per il controllo del canale. Sotto la pressione ONU e USA si ritira. La pace resta lontana.

Nel 1967 scoppia la Guerra dei Sei Giorni. Israele lancia un attacco preventivo contro Egitto, Siria e Giordania. Conquista Sinai, Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme Est e Golan. Risultato: altri 300.000 palestinesi sfollati. L’ONU approva la Risoluzione 242: Israele si ritiri dai territori occupati in cambio di pace. Non accade.

Nel 1973 arriva la Guerra di Yom Kippur. Egitto e Siria attaccano a sorpresa. Israele resiste, ma perde l’illusione d’invincibilità. L’ONU approva la Risoluzione 338: applicare la 242. Anche questa rimane lettera morta.

Tra sangue e trattati: 1979-1995. Nel 1979 Egitto e Israele firmano la pace a Camp David. Israele restituisce il Sinai. È il primo trattato di pace tra Israele e un paese arabo.

Nel 1982 Israele invade il Libano per eliminare l’OLP. Nascono Hezbollah e nuovi equilibri di odio. A Sabra e Shatila centinaia di civili palestinesi vengono massacrati da milizie cristiane, sotto gli occhi delle truppe israeliane.

Nel 1987 esplode la Prima Intifada. Pietre contro carri armati. Nasce Hamas, che predica la jihad.

Nel 1993 arrivano gli Accordi di Oslo. Israele e OLP si riconoscono. Nasce l’Autorità Palestinese. Sembra l’inizio della soluzione a due stati. Rabin, Arafat e Peres ricevono il Nobel per la Pace. Ma nel 1995 Rabin viene assassinato da un estremista israeliano. La speranza si spegne.

E in quegli anni io ero lì. Dal 1994 al 1995 ho fatto parte della MFO (Multinational Force and Observers) nel Sinai, incaricata di garantire il rispetto dei trattati di Camp David tra Israele ed Egitto. Ho visto con i miei occhi quanto fragile sia la pace, quanto lavoro richieda custodire un trattato.

Ricordo un amico arabo che un giorno mi mostro una chiave: era la chiave della casa del nonno, abbandonata nel ’48. La custodiva come si affida un’eredità sacra, non un pezzo di ferro, ma un pezzo di memoria. In quel momento ho capito che la guerra non distrugge solo corpi, ma anche case, radici, identità.

Dal ritiro al blocco: 2000-2014. Nel 2000 fallisce il vertice di Camp David. Scoppia la Seconda Intifada. Attentati suicidi, repressione militare. Migliaia di morti da entrambe le parti.

Nel 2005 Israele si ritira unilateralmente da Gaza. Nel 2006 Hamas vince le elezioni e nel 2007 prende il controllo del territorio con la forza. Da lì inizia il blocco totale israeliano, con confini chiusi, vite spezzate, economia distrutta.

Nel 2008 parte l’Operazione Cast Lead. Israele bombarda Gaza per fermare i razzi. Oltre mille morti palestinesi.

Nel 2012 arriva l’Operazione Pillar of Defense. Io c’ero. Ero a Jaffa, la parte araba di Tel Aviv. Vivevo lì, meravigliosa e fragile città che sa di mare e di convivenza.

Un giorno, a pranzo con amici israeliani, il ristoratore ci disse: 

«Benvenuti, questo è il vostro tavolo. Quella è la porta del bunker: se sentite la sirena, correte lì».

Non era una battuta. E infatti la sirena suonò davvero. Ci alzammo di colpo, lasciando piatti mezzi pieni, e ci dirigemmo al bunker sotterraneo.

E come dimenticare le notti in cui, mentre dormivo, la sirena ci svegliava all’improvviso. Io e il mio vicino di casa, un polacco in missione come me, scendevamo in pigiama nel rifugio sotto casa. Lì, in quell’angolo angusto, due uomini di due mondi diversi condividevano lo stesso spavento. È così che la guerra entra nella vita: non ti chiede il permesso, semplicemente ti scaraventa giù da un letto e ti mette di fronte alla tua fragilità.

Nel 2014 scoppia l’Operazione Protective Edge. Più di duemila morti a Gaza. Una nuova ferita che ancora sanguina.

Dal fuoco al 7 ottobre. Gli anni seguenti sono una sequenza di escalation e tregue fragili. Nel 2021 di nuovo razzi e bombardamenti.

Il 7 ottobre 2023 Hamas lancia un attacco senza precedenti contro Israele. Civili massacrati. Israele risponde con una guerra totale su Gaza. E la spirale continua, senza via d’uscita.


Gli attori esterni e la responsabilità della comunità internazionale. Questa guerra non è mai stata solo locale. Gli Stati Uniti hanno garantito a Israele un sostegno politico e militare senza pari. L’URSS prima e la Russia poi hanno appoggiato diversi paesi arabi. L’Europa è rimasta divisa e incapace di imporsi. L’ONU ha prodotto decine di risoluzioni mai fatte rispettare. La comunità internazionale ha avuto la forza di creare lo Stato di Israele, ma non la volontà di garantire davvero due stati e due popoli. Questa è la sua più grande responsabilità.

Mai più lasciati indietro. Dopo aver visto la guerra da vicino so una cosa con certezza: nessuna operazione militare potrà mai portare la pace. La vera forza non è nella potenza di fuoco, ma nella capacità di garantire giustizia. Due stati, confini sicuri, Gerusalemme condivisa, fine delle occupazioni e del blocco.

Ogni volta che la comunità internazionale sceglie il silenzio, lascia indietro milioni di persone. Mai più lasciati indietro non è solo il titolo di questo blog. È il mio impegno. Perché chi ha visto la guerra sa che l’unica vittoria che conta è la vita.

E non è un caso se nel mio libro autobiografico Lasciato Indietro (Armando Editore) ho dedicato un intero capitolo alle mie missioni internazionali al mio pensiero sulle guerre. Perché ciò che ho visto e vissuto non è soltanto storia, ma carne e sangue che porto ancora addosso. Quelle pagine raccontano la fragilità e il coraggio, la paura e la speranza che ho incrociato nei deserti del Sinai e nei cieli di Gaza. Scriverne significa non dimenticare, ma soprattutto dare voce a chi non ne ha.

E concludo con il mio dolore. Dolore per gli amici arabi e israeliani che nelle mie missioni ho conosciuto e con cui ho lavorato. Persone vere, con nomi, famiglie, speranze. Non nemici, ma compagni di strada in una terra che continua a bruciare. Una terra che meriterebbe pace, giustizia e dignità.

Disclaimer: Queste parole non rappresentano in alcun modo le Forze Armate italiane, ma soltanto la mia esperienza personale. Sono un uomo che ha servito e serve il proprio Paese con disciplina e onore, ma che come cittadino sente il dovere morale di raccontare ciò che ha visto.


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