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Addio social agli under 16? Facciamo chiarezza, proponiamo una via italiana ed europea

SOTTOTITOLO: Dalla notizia virale alla realtà delle leggi: cosa succede in Australia, cosa si muove in Italia e in UE, e una soluzione concreta per proteggere i ragazzi

C’è un titolo che gira forte: “addio social per gli under 16 da dicembre”. Sì, il mondo alza l’asticella, ma le sfumature contano. L’Australia ha fissato dal 10 dicembre un limite nazionale a 16 anni imponendo alle piattaforme di impedire account dei minori; l’Italia è nel pieno del dibattito e non ha un divieto generale. Meno slogan, più realtà: la domanda è come proteggere davvero un tredicenne che oggi supera l’ostacolo con due tap e una data inventata.

Non è solo una questione di leggi o di titoli sensazionalistici: al centro ci sono i ragazzi, le loro famiglie, gli adulti che dovrebbero proteggerli e le piattaforme che invece li trasformano in bersagli perfetti. La posta in gioco è chiara: stabilire un limite reale per aprire e mantenere un profilo social, con un controllo che non si aggiri con un click e una data inventata.

Il tempo corre veloce. In Australia dal 10 dicembre scatterà il divieto per gli under 16, in Italia il dibattito è acceso ma la norma ancora non c’è, mentre in Europa si scrivono regole comuni per rafforzare la protezione dei minori. Anche negli Stati Uniti alcuni stati hanno già imboccato la strada dei divieti o del consenso obbligatorio dei genitori.

Il teatro di questa partita non è lontano: è dentro i telefoni, negli app store, nelle aule di scuola, nei parlamenti, e soprattutto nelle stanze di casa. Perché un ragazzino di undici o dodici anni non dovrebbe diventare materiale grezzo per algoritmi che lo inseguono fino al cuore, moltiplicando ore di schermo e vulnerabilità.

L’Italia non parte da zero. Sono sul tavolo proposte per fissare l’età minima a 15 o 16 anni, rendere nulli i “contratti” digitali degli under sedici senza consenso dei genitori e obbligare la verifica dell’età. Agcom e Garante Privacy stanno definendo regole tecniche per l’age verification, mentre il Parlamento valuta un quadro organico. Non serve una crociata: serve un sistema chiaro di responsabilità e controlli, una filiera in cui ogni attore risponde delle proprie scelte, senza scaricare tutto sulle famiglie.

Fuori dai confini il quadro è concreto. L’Australia ha approvato una legge nazionale che impone “misure ragionevoli” per impedire account sotto i 16 anni e ha pubblicato regole applicative; il governo ha incluso anche YouTube. La Francia richiede il consenso dei genitori sotto i 15 anni. La Spagna fissa a 14 anni il consenso digitale per i dati dei minori. Il Regno Unito impone robuste misure di age assurance. Negli Stati Uniti la Florida vieta account sotto i 14 anni e chiede il consenso ai quattordicenni e quindicenni, mentre altrove norme simili sono state contestate in tribunale.

Finita la rassegna, veniamo a ciò che conta. Spostiamo il controllo dell’età alla fonte, nell’ecosistema che già regge gli smartphone, cioè SIM o eSIM. In Italia ogni linea mobile è collegata a un codice fiscale e i telefoni dei minori nascono quasi sempre in famiglia. Usiamo questo aggancio per creare una credenziale d’età “zero knowledge”, legata alla SIM e validata con doppia chiave, codice fiscale del minore e del genitore o tutore. La credenziale non espone il codice fiscale né altri dati: restituisce solo un attributo “Over16: sì/no” firmato da un soggetto fidato.

Il token vive nel portafoglio digitale del telefono e non viaggia tra server pubblicitari. Può essere emesso via SPID o CIE e, in chiave europea, attraverso l’EUDI Wallet previsto da eIDAS 2, con il principio di minima divulgazione: dimostrare un attributo senza rivelare l’identità. Gli app store diventano la prima linea di difesa: senza token attivo nessuna app social si installa né si aggiorna; se il token scade o viene revocato, l’app si sospende finché il genitore non rinnova. Il controllo vive nel sistema operativo e negli store, non nel buon cuore delle piattaforme.

Obiezione classica: “useranno le VPN”. Non cambia. Qui la serratura sta nell’installazione e nell’accesso, non nell’indirizzo IP. Se provassero store alternativi, scatta il secondo livello: i sistemi operativi chiudono le API social senza token valido, rendendo inutili anche le app laterali. Tutto è tracciato, revocabile e contestabile, con log conservati sul dispositivo e audit per l’autorità. Privacy by design, trasparenza by default, responsabilità distribuita: così si passa dagli slogan ai fatti.

Per riuscirci servono ruoli chiari. I gestori telefonici emettono e custodiscono la credenziale d’età, ma non vedono dove viene usata; gli store la validano in locale; le piattaforme documentano la conformità e aprono audit; le scuole educano e segnalano; le famiglie decidono. Tempi rapidi: sperimentazione regionale, poi estensione nazionale, con sanzioni vere per chi elude e incentivi per chi certifica. I costi sono sostenibili perché si sfrutta l’infrastruttura esistente, mentre il valore sociale ed educativo è enorme.

Accanto alla tecnica serve cultura. In “Lasciato Indietro” (Armando Editore) ho raccontato una deriva che vedo troppo spesso: lo smartphone regalato come dono di prima comunione o a dieci anni, con la giustificazione che “ce l’hanno tutti”. Non è un gesto d’amore: è una delega di responsabilità. Un bambino non deve portare in tasca un mondo che noi adulti fatichiamo a reggere. Prima della tecnologia servono riti nuovi e impegni scritti: una patente digitale, un patto familiare, un tempo dichiarato di disconnessione, un’educazione emotiva che preservi sguardo, sonno, corpo, relazioni.

Il punto non è spegnere la modernità, ma regolarla come la velocità in autostrada: limiti, controlli, sanzioni e soprattutto educazione. Chi ha più di sedici anni deve entrare in un ambiente che lo riconosca per età, lo protegga dai contenuti tossici e lo responsabilizzi. Chi è sotto quella soglia non deve poter saltare il tornello. I genitori devono essere parte attiva, non spettatori. Lo Stato deve pretendere serrature efficaci e verificabili. Le piattaforme devono adeguarsi o pagare sul serio. Gli adulti devono scegliere da che parte stare.

Questo non è censura: è cura. È mettere prima i minori, poi i ricavi. È chiedere agli adulti di essere adulti. Accetteresti che un figlio di dieci anni vada da solo in metropolitana alle tre del mattino? Se no, perché lo lasci da solo, di notte, dentro un algoritmo che sa tutto di lui e nulla di ciò che lo ferisce? La libertà vera nasce quando il perimetro è chiaro. Il resto è rumore. Facciamolo adesso: con una legge seria, con una tecnologia sobria, con una cultura che non lasci più nessuno indietro.

Forse questa abitudine alla disconnessione sarà un passo cruciale. Un esercizio collettivo che ci insegnerà che non tutto deve passare dallo schermo, che esistono tempi e luoghi in cui il silenzio digitale diventa respiro e libertà. Se i ragazzi impareranno presto che si può vivere anche senza la costante vibrazione in tasca, allora forse avremo davvero iniziato a costruire un nuovo modo di abitare la rete: più umano, più consapevole, meno schiavo.

«Non restiamo spettatori: difendiamo i nostri figli prima che siano gli algoritmi a educarli. Commenta, condividi, porta la tua voce: solo insieme possiamo cambiare davvero le regole del gioco.»

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